La narrazione del romanzo giallo e la comunicazione

Lo scrittore di un romanzo giallo deve risolvere un problema a monte: costruire una storia, delineare i personaggi e fornire al lettore un numero necessario ma non sufficiente di elementi che gli permettano di individuare da solo il colpevole, mantenendolo però nascosto il più a lungo possibile. Deve, cioè dire quanto basta a far scoprire il colpevole ma dirlo in modo tale che sia difficile servirsene efficacemente, ossia deve dire senza comunicare.

Deve costruire un problema per il lettore, fornirgli un quadro di indizi dissimulati nella narrazione e sfidarlo a trovare il colpevole prima del protagonista. Come fare per vincere la partita con il lettore stesso? Sviandone l’attenzione. Il diversivo è rappresentato dalla costruzione attenta, dettagliata e soprattutto ripetitiva, del personaggio (che per inciso determina anche l’affezione nei confronti del protagonista).
La narrazione classica prevede, infatti, un detective aristocratico, eccentrico, o decadente. Insomma una persona fuori dal comune, si pensi a Dupin di Poe, a Poirot, a Holmes. Quando non lo è, come nel caso del Maigret di Simenon, questi svolge una funzione sociale confortante e riparatoria: si muove nella società, tra il popolo, individua e sconfigge il crimine e stabilisce (o ristabilisce) gli equilibri tra nobiltà, borghesia e proletariato. In qualche caso, applicando un’umanità ampiamente condivisibile, amministra autonomamente una sorta di giustizia, quando, come nel caso di Maigret, decide di non arrestare, di permettere una fuga o un suicidio pietoso del colpevole.
Ha i propri tic, le proprie manie e le proprie debolezze ed eccentricità, punti forti cui ancorare l’attenzione del lettore, sviandolo dal filo narrativo e dalla soluzione dell’enigma.
Questa matrice narrativa non è tranquillizzante (anche se in fondo il patto dissimulato tra autore e lettore è che il detective scoprirà sempre il colpevole) e crea la motivazione alla lettura e la sfida tra il lettore e il detective.
Ma se invece l’autore volesse semplicemente divertire e far rilassare il proprio lettore, definendo con lui un patto diverso dove non gli si chieda nemmeno di pensare?

Allora l’ipotetico narratore dovrebbe inventare il Tenente Colombo, che rompe questo schema narrativo classico. Modesto, trasandato, schivo, impacciato, ridondante, molesto e povero si confronta immancabilmente con le malefatte dell’High Society, culturalmente eccellente o semplicemente danarosa. I criminali di Colombo vivono in case principesche, sono professionisti di successo invidiati e invidiabili, o star del cinema. Supponenti, certi della loro intoccabilità. Accondiscendenti in un primo momento verso il curioso ometto che non li impensierisce perché trasuda mediocrità, poi, immancabilmente arrivano a detestarlo, alcuni a minacciarlo. Ma alla fine cedono al suo metodico rigore investigativo, alla maniacalità delle sue indagini, alla sua attenzione per i particolari insignificanti. E sempre finiscono nella rete.
La narrazione parte dal delitto commesso sotto gli occhi del pubblico e dall’azione più o meno geniale del colpevole nel costruirsi alibi adeguati. Il patto con il pubblico diventa: guardiamo insieme come il Tenente Colombo, con le sue sole armi e il suo stile da “uomo medio”, che non entra in competizione con il pubblico per qualche dote particolare ma ne ricalca esattamente lo stile (anzi spesso gli è inferiore), demolirà gli alibi del colpevole, incastrandolo. Mai il ceto medio ha avuto un alfiere più tenace e vittorioso del Tenente Colombo: in lui lo spettatore può identificarsi facilmente e può condividerne i successi e l’umanità. Non ha bisogno di suonare il violino come Holmes, fumare la pipa come Maigret e non ha bisogno nemmeno di farsi crescere i baffetti e di impomatarli di brillantina come Poirot. E’ sufficiente che si metta una camicia non stirata.
Tranquillizzare o sfidare? Dissimulare o rendere immediatamente chiaro a tutti l’obiettivo della narrazione? Valutazioni che vanno fatte a monte per qualsiasi tipo di comunicazione.

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